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Regola (Area alpina), sec. XI -

A livello generale le Regole possono essere definite come enti montani di antica origine, diffusi soprattutto nell'Alto Veneto e in alcune zone del Trentino Alto Adige, che si ricollegano a tipiche forme di proprietà collettive.
Le comunità di villaggio, nella loro accezione più vasta e generale comprendente realtà denominate in modo diverso ("Consorterie valdostante" in Val d'Aosta, "Regole" nell'Alto Veneto, "Regole, Comunanze, Interessenze, Vicinie" in Trentino Alto Adige, "Società di antichi originari" in Lombardia, "Partecipanze" in Emilia Romagna), possono ricondursi ad uno schema di fondo che strutturalmente è comune. La caratteristica base è data dal duplice criterio di appartenenza alla comunità proprietaria: la residenza (elemento territoriale) e il vincolo familiare (agnatizio), ugualmente necessari per creare lo status complessivo di diritti e doveri, rilevante per la qualificazione giuridica degli aventi diritto. Dei due requisiti quello familiare è prevalente, visto che il "regoliere" per eredità resta tale anche se va a risiedere altrove (al più vi è una sospensione dei diritti in caso di spostamento della residenza). L'insieme di persone legate da vincoli di parentela e conviventi in comunione familiare forma il "fuoco" che è la cellula di base della singola comunità, destinatario delle obbligazioni e titolare del diritto al riparto dei proventi della gestione comune dei beni. All'interno della famiglia l'autorità dispositiva e la funzione rappresentativa dell'intero gruppo agnatizio spetta al pater familias o, se questi muore, alla vedova quale tutrice dei figli minori, oppure al maggiore dei figli maschi. Il godimento del bene comune ha sempre una contropartita nelle prestazioni di lavoro, richieste dalla gestione del patrimonio comune, il cui contenuto e la cui quota di imposizione vengono regolati dal singolo statuto comunitario. In molte zone alpine si sono storicamente consolidate tali forme organizzative tipiche, in genere legate a proprietà collettive indivisibili di beni ambientali, quali boschi, pascoli, malghe, che ancora oggi svolgono una funzione essenziale. Tali realtà sono accomunate da una struttura democratica che ha nell'assemblea dei capifamiglia, discendenti per linea diretta dagli originari del luogo, l'organo principe per la gestione dei beni "a mani riunite". Altro aspetto fondamentale di queste istituzioni è la secolare autoregolamentazione per mezzo di laudi o statuti, i più antichi dei quali (per esempio quello della Regola di Candide in Comelico) risalgono al XIII secolo. In essi viene compiutamente codificato il sistema organizzativo-gestionale delle istituzioni, con a capo il "marigo" (o laudatore), lo "status" del regoliere, i diritti dei capifamiglia con particolare riguardo al legnatico" (quantitativo di legname per il riscaldamento) e al "fabbisogno" (sussidio in denaro o in natura per interventi indispensabili all'abitazione).

I primi documenti che si riferiscono con certezza alla presenza delle Regole nel Cadore sono successivi all'anno 1000. Le origini di questa forma di proprietà collettiva cadorina sono molto incerte. Un'ipotesi accreditata spinge la diffusione della proprietà collettiva nel territorio addirittura al periodo protostorico. E' probabile che, i Paleoveneti per primi, seguiti dai Celti, obbligati dal territorio impervio, siano stati costretti ad unire le forze per superare le difficoltà e colonizzare il territorio. Altri studiosi hanno individuato l'origine della proprietà collettiva risalendo al diritto romano, nel quale era presente la distinzione tra terre fiscali e terre comunali. Le prime, appartenenti allo Stato, venivano date in godimento ai coloni con dei contratti, per lo più dalla durata indeterminata. Le seconde, invece, venivano assegnate ai cittadini romani che abitavano nei municipia, in modo da romanizzare le nuove conquiste con il vincolo, però, della gestione comune e dell'utilizzazione delle terre pro indiviso. Queste proprietà collettive hanno assunto la veste giuridica dei "compascua pro indiviso" e sono state considerate pertinenze dei fondi di valle, che, infatti, venivano acquistati e ceduti con i diritti sui compascua. Questi diritti sono progressivamente venuti meno in seguito alla riforma amministrativa e fiscale attuata da Diocleziano nel 301, con la quale la pressione tributaria sulle categorie economiche divenne fortissima, tanto che i piccoli proprietari terrieri ed intere comunità si videro spesso costrette a darsi con le proprie terre agli esattori, diventando i loro coloni. La derivazione germanica sembra la più accreditata, soprattutto se si considera che le popolazioni germaniche ritenevano il suolo una forma di proprietà collettiva appartenente alla tribù, mentre gli individui ne avevano solo il godimento temporaneo. Le cosiddette comunioni di villaggio prendevano il nome di marca, almenda, foleland ed abbracciavano il pascolo, i boschi, e le terre coltivate. All'interno delle innumerevoli popolazioni germaniche che si avvicendarono nel corso dei secoli in Italia, assunsero particolare importanza, circa l'origine e la formazione della proprietà collettiva, i Longobardi. Titolari dei diritti e doveri di godimento e coltivazione delle terre, divennero le fare, gruppi parentali costituiti da almeno 10-12 componenti, un numero sufficiente ad abitare un determinato luogo e a coltivare il territorio di appartenenza. Le prerogative dei gruppi familiari, rimaste più o meno integre nel corso degli anni e nell'alternanza di regimi e governi, sfociarono negli Statuti intorno all'anno 1000. Prendeva così forma la comproprietà delle risorse agro-silvo-pastorali, ma soprattutto si dava corpo a scelte di vita che regolavano una comunità dal punto di vista economico, sociale e culturale.
Regola è un termine relativamente recente, che cominciò a comparire nei documenti del tredicesimo secolo. In quel periodo il termine veniva utilizzato con il significato di adunanza, cioè assemblea per discutere dei problemi della comunità, per decidere appunto le "regole" da stabilire in capo ai consociati. La stessa assemblea veniva chiamata anche fabula, perchè vi si confabulava e si discuteva sugli interessi comuni, emanando quindi regole di comportamento per i soci. Ben presto il nome della riunione (fabula) e lo scopo di essa (fare le regole), vennero utilizzati indifferentemente per individuare la consociazione stessa. In quegli anni, però, l'espressione più usata per definire le consociazioni di proprietari di pascoli pro indiviso è Commune o Comune o Comuna. Il termine, tuttavia, non va inteso come riferito ai beni di proprietà dell'ente Comune, perché all'epoca non esisteva un ente giuridico distinto dalle persone dei consociati, perciò il Comune e gli uomini che lo componevano erano termini sinonimi. Ne discende che fin dall'origine i beni collettivi erano considerati di proprietà di tutti gli homines communitatis e non dell'ens universitatis.
L'assemblea, alla quale dovevano intervenire tutti i Regolieri, in genere si riuniva davanti alla chiesa, sotto il suo porticato, se esisteva, o sotto gli alberi. Nei Laudi (statuti) sono descritti chiaramente i compiti e le responsabilità delle persone che detenevano le diverse cariche loro attribuite dall'assemblea:
- il Marigo è il capo dell'amministrazione della Regola, coordina tutte le attività e ne è il legale rappresentante. Egli presiede l'assemblea dei consorti, risponde personalmente delle spese, dei danni o trasgressioni ch'esso rechi al patrimonio della Regola, ma abbisogna del rispetto ed obbedienza da parte di tutti i Regolieri;
- i Laudatori sono i collaboratori e consiglieri del Marigo, costituiscono con lui quel collegio, detto Banca, che pronuncia i Laudi e i giudizi su eventuali danni al patrimonio comune;
- i Saltari sono le guardie campestri di monte e di piano, elette dall'assemblea, ma il cui mandato è spesso assegnato a turno. Prendono ordini dal Marigo e dai Laudatori; il loro compito è di guardia dei propri vicini, con l'obbligo di denuncia per infrazioni e di riscossione di pegni e multe, e di vigilanza sui beni comuni e sui forestieri;
- i Giurati del lume sono due o più Regolieri incaricati di provvedere alla manutenzione ordinaria della chiesa e all'amministrazione del suo patrimonio. Essi sono coordinati dal Monacus che ha il compito di suonare le campane, pulire la chiesa e le altre adiacenze e riceve un compenso per il suo servizio;
-il Massaro è il cassiere, ma nelle Regole poco popolate, la cassa in genere viene tenuta dal Marigo o dai Laudatori, oltre che dai Giurati del lume per quanto di loro competenza.

Nel definire un ente come la Regola, è necessario distinguere tre realtà simili ma con caratteristiche nettamente diverse: l'uso civico, la terra civica (detta anche proprietà collettiva aperta) e la proprietà collettiva chiusa.
L'istituto giuridico dell'uso civico è il diritto soggettivo riconosciuto a una comunità, su beni di proprietà privata o pubblica (comunale o frazionale), di esercitare la il godimento dei beni stessi (diritto di far legna, di pascolare, di fare fieno, di pescare, di cacciare, di seminare, di raccogliere frutti di sottobosco). I diritti di uso civico sono in capo ai singoli, la cui comunità è priva di una propria distinta soggettività; il requisito per poterne usufruire all'interno di un determinato Comune è quello dell'appartenenza al Comune stesso, appartenenza determinata dalla residenza o dalla dimora abituale.
Per proprietà collettiva aperta (o terra civica) s'intende il diritto di proprietà pieno, esclusivo, inalienabile e intrasmissibile in capo ad una determinata comunità di persone, su beni specificamente individuati (terreni agricoli, pascoli, boschi). In questo caso la comunità è considerata quale entità separata e diversa rispetto al complesso degli aventi diritto a godere le utilità della cosa.
La differenza tra proprietà collettive aperte (terre civiche) e chiuse consiste principalmente nella possibilità o meno di estendere il godimento del diritto di proprietà ai nuovi abitanti della comunità. Le Regole sono un tipico esempio di proprietà collettive chiuse, in quanto per poter godere delle terre comuni non basta il rapporto d'incolato, ma è necessario anche il vincolo agnatizio, cioè la discendenza dagli antichi originari, costituenti l'albo chiuso. I nuovi arrivati possono essere ammessi solo in casi particolari e limitati. Va precisato che i singoli che costituiscono la collettività non sono proprietari di una quota parte del bene, ma si tratta di una proprietà "a mani riunite", indivisa.

L'istituzione regoliera si è perpetuata per molti secoli. Nel caso della montagna veneta, le Regole hanno attraversato tutto il Medioevo, sono state rispettate durante la dominazione della Repubblica di Venezia (1420-1797), che mai ha esercitato diritti di proprietà sul patrimonio collettivo, fino ad essere messe a dura prova dall'arrivo delle truppe napoleoniche, poi sostituite dal governo austriaco che, grazie a trattative e mediazioni di esponenti delle comunità locali, alla fine ne ha riconosciuto la personalità giuridica. La normativa statale post-unitaria ha tentato di "ingabbiare" le Comunioni familiari montane in norme generali ma ha poi riconosciuto la loro peculiarità, fissando dei principi generali e delegando alle Regioni il compito di disciplinare - adeguandosi alle varie realtà locali - particolari aspetti, mentre per il resto ha legittimato le Comunioni familiari montane a seguire il diritto consuetudinario e i propri statuti. La legge n. 1766 del 1927 sul riordino degli usi civici disciplinò tutte le forme di godimento collettivo indipendentemente dalle varie origini storiche e formazioni giuridiche, con l'intento di sistemare in maniera definitiva una materia intricata, che causava continue liti di rivendicazione. La legge si ispirò ai principi elaborati dalla cosiddetta scuola medievale meridionale che aveva in mente una realtà con caratteristiche diverse rispetto alle proprietà collettive dell'Arco Alpino, ma nonostante ciò le disposizioni normative furono applicate anche alle realtà dell'Italia settentrionale. Le proprietà collettive chiuse furono considerate come un'usurpazione, perciò dovevano essere aperte al godimento anche dei non originari e tale principio doveva essere esteso alle Regole del Cadore, Comelico e Ampezzo. Con molta tenacia le Regole Ampezzane e Comeliane non cessarono di rivendicare i loro diritti in conformità agli antichi Laudi, ma il Commissario liquidatore, con sentenza del 27 dicembre 1947, si pronunciò a favore dell'applicabilità della legge del 1927 alle Regole, alle quali non era stato riconosciuto nessun diritto particolare, perciò avrebbero dovuto uniformarsi alla legge sul riordino, come tutte le associazioni agrarie. Il primo riconoscimento alle Regole, sia pur limitato, ma che premia la tenacia dimostrata, è contenuto nel decreto legge n. 1104 del 1948, chiamato anche decreto Segni. Esso riconobbe la personalità giuridica di diritto pubblico alle Regole della Magnifica Comunità Cadorina che avessero presentato entro sei mesi al Prefetto di Belluno lo Statuto, l'elenco con i nominativi dei Regolieri e la mappa dei beni e successivamente ne avessero ottenuto l'approvazione da parte della Giunta Provinciale Amministrativa.
La natura giuridica delle Regole ha rappresentato un difficile problema a cui dottrina, giurisprudenza e legislatore hanno spesso dato soluzioni differenti. Tali ordinamenti hanno a lungo oscillato tra pubblico e privato, per poi definirsi in una sorta di regime misto: privata è oggi la natura istituzionale dell'Ente (sotto la forma di "altre società"), mentre di interesse pubblico e sottoposto a vincoli è parte del patrimonio dell'Ente stesso. Del complesso cammino giuridico che ha portato a tale soluzione, basti qui ricordare i tratti salienti della disciplina attualmente vigente che si fonda sull'art.10 della L. 1102/1971 e sull'art.3 della più recente L. 97/1994. La legge 1102/1971 ha rappresentato una vera svolta nel panorama giuridico statale, per questa tipologia di enti. Grazie ad essa, le Regole, soggette per lungo tempo, come enti pubblici, alla disciplina prevista per gli usi civici (che sono cosa ben diversa dalla proprietà collettiva "a mani riunite"), si vedono finalmente riconoscere la validità degli antichi statuti e consuetudini, affermandosi la natura privata di tali enti, pur soggetta a controlli e vincoli particolari. Gli articoli 10 e 11 della legge 1102/1971 si limitano a citare le Regole del Comelico e Ampezzo, le Servitù della Val Canale e le Società degli antichi originari della Lombardia, ma la dottrina prevalente è concorde nel ritenere non esaustiva tale elencazione. La nuova normativa non ha dato luogo alla soppressione di ogni controllo sulle regole. La stessa esistenza del vincolo di inalienabilità, indivisibilità e destinazione a fini agro-silvo-pastorali del patrimonio comporta la necessità che tale vincolo sia rispettato. Sono invece caduti i controlli preventivi su bilanci e programmi che venivano allora esercitati dalla Giunta Provinciale Amministrativa. Ma sono rimasti i controlli tecnici dell'autorità forestale. L'amministrazione delle regole soggiace alle norme e ai controlli previsti per gli altri enti privati e alle forme di pubblicità contemplate dagli statuti e dai regolamenti regionali previsti dall'art.10. L'ultimo intervento del legislatore statale, la legge n. 97/1994, all'art.3 "Organizzazioni montane per la gestione di beni agro-silvo-pastorali" cita espressamente le varie ipotesi di comunità di villaggio, comunque denominate, affidando alle Regioni il compito di provvedere al riordino della disciplina esistente "al fine di di valorizzare le potenzialità dei beni agro-silvo-pastorali in proprietà collettiva indivisibile, inalienabile ed inusucapibile". La legge conferma che "alle organizzazioni predette è conferita personalità giuridica di diritto privato" e che a loro è riconosciuta l'autonomia statutaria collegata agli antichi laudi e consuetudini. Resta affidata alle Regioni la competenza in materia di cambio di destinazione dei beni, le garanzie per la partecipazione alla gestione (in assenza di norme di autocontrollo fissate dagli enti), le forme specifiche di pubblicità dei patrimoni, le forme sostitutive di gestione dei beni in caso di inerzia o di impossibilità di funzionamento per gli enti stessi. In relazione al grande patrimonio boschivo delle Regole va detto che gli enti sono rigidamente vincolati nell'utilizzazione dai piani economici forestali. Si attua così una "pulizia" mirata del bosco che prevede il taglio limitato di determinate particelle boscate solo a distanza di parecchi anni, così da ottenere una crescita media ottimale delle piante ed il loro progressivo rinnovarsi. L'indivisibilità e l'inalienabilità di tale patrimonio ha consentito in questi secoli il mantenimento di un ambiente montano integro e curato. Evidentemente oggi l'antico ruolo primario di tali istituzioni si è affievolito, sia per la crisi del legno, sia per la naturale evoluzione socio-economica di molte zone di montagna nelle quali il turismo e le attività del terziario hanno soppiantato l'antico sistema economico agro-silvo-pastorale. Resta intatta, invece, la valenza ambientale, storica e culturale di queste istituzioni.
Nel caso della Regione Veneto, la proprietà comune silvopastorale del Cadore, area in cui le Regole hanno particolare radicamento, è costituita da un unico complesso silvo pastorale agricolo che ha una superficie produttiva di circa cinquantamila ettari, una popolazione di oltre quarantamila unità, ventitré comuni in cui operano 81 Regole nelle quali si organizzano le famiglie dei consorti originari e dei loro discendenti. Va detto però che non tutte queste Regole sono giuridicamente riconosciute e attive. Attualmente le Regole attive in Veneto, inquadrate come persone giuridiche di diritto privato con finalità pubbliche, sono limitate alla zona del Comelico e se ne contano 51, ufficialmente riconosciute dalla Regione Veneto attraverso la L. R. 26 del 1996.


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Editing and review:
Pavan Laura, 2014/08/19, prima redazione


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